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Il transfert idealizzante come rischio per il paziente.
Una riflessione a partire da alcune poesie di Vivian Lamarque

di Marco Nicastro

5 giugno 2017


Un tratto assolutamente interessante della poesia di Vivian Lamarque è che essa riesce, in modo spesso originale, a semplificare l’espressione dei sentimenti attraverso forme linguistiche elementari e dirette, debitrici al parlato infantile. Nei suoi componimenti predominano la forma breve, le assonanze, le rime facili e le numerose ripetizioni che scandiscono un ritmo da filastrocca (altro richiamo all’infanzia). Tali caratteristiche, pur allontanandola dai vertici di lirismo che hanno caratterizzato tanta poesia del ’900, non le impediscono di raggiungere le profondità emotive del lettore, a patto che questi accetti di porsi in ascolto delle eco più antiche della propria biografia individuale, quelle appunto dell’infanzia.

Qui però, più che su certi aspetti formali della sua poesia, mi soffermerò su alcuni contenuti, in particolare il tema centrale di tre raccolte scritte [1] tra il 1986 e il 1992 e dedicate al suo analista (la poetessa infatti intraprese, a 38 anni, una psicoanalisi junghiana).

Leggendo il libro della poetessa, il mio interesse da psicoterapeuta, che si interroga continuamente sul proprio metodo di lavoro e i suoi presupposti teorici, è stato catturato da una serie di brevissime descrizioni dell’autrice che esemplificano bene e coraggiosamente ciò che un analizzando prova nel corso della propria analisi e da cui può facilmente essere travolto. Mi riferisco nello specifico a quelle forme estreme e distorte di transfert che poco hanno a che vedere con il tipo di transfert che naturalmente si sviluppa nel corso di ogni trattamento psicoterapeutico.

Ora, il transfert può essere inteso come l’attuazione in terapia di una modalità relazionale (fatta anche di emozioni, pensieri, sensazioni corporee, fantasie) influenzata dalle prime esperienze relazionali che hanno avuto, proprio per la loro frequenza, intensità, nonché per la grande plasticità cerebrale tipica dell’infante, un ruolo determinante nella costituzione psichica del soggetto. Queste tendenze relazionali, una volta fissatesi, tenderanno a consolidarsi ulteriormente — spesso anche per il fatto che il bambino continua a crescere nello stesso ambiente ancora per molti anni — e ad attuarsi in modo automatico, senza cioè il controllo della riflessione cosciente. Tali tendenze inoltre, come già aveva sottolineato Freud, si manifestano in ogni rapporto interpersonale e non solo in analisi. Tuttavia è proprio in quest’ultima che esse vengono a galla più chiaramente e più intensamente, grazie ad alcuni particolari aspetti del setting della cura psicoanalitica utilizzati proprio per esplicitare il transfert e renderlo più comprensibile all’analista e poi al paziente stesso.

Il problema è che, a lungo andare, proprio a causa di quelle caratteristiche del setting che, secondo Freud, avrebbero facilitato l’emergere del transfert (in particolare l’elevata frequenza delle sedute, la durata della cura e l’uso del lettino) insorgono più facilmente, in molti trattamenti analitici, alcuni “effetti collaterali”, che non sono facilmente liquidabili come semplici forme estreme di transfert tipiche solo di alcuni soggetti affetti da gravi psicopatologie. Tali fenomeni invece, più che manifestazioni eccezionali sembrano una conseguenza inevitabile della struttura stessa del trattamento analitico e finiscono purtroppo col rendere l’analizzando più vulnerabile ai possibili errori tecnici e agli aspetti di personalità del suo analista. [2]

Quanto emerge dalle tre raccolte poetiche in questione, rende a mio parere testimonianza di ciò in un modo molto limpido seppur artisticamente mediato, ed è per questo che mi è parso interessante prenderle in considerazione.

Come si diceva all’inizio, la produzione della Lamarque sa caricarsi di intensità lirica dando voce ai sentimenti soggettivi, pur se attraverso la frequente mediazione della terza persona — «A nove mesi la frattura / la sostituzione il cambio di madre. / Oggi ogni volto ogni affetto / le sembrano copie cerca l’originale / in ogni cassetto affannosamente.» (A nove mesi) — e attraverso l’attenuazione operata da un linguaggio che attinge a piene mani dal parlato, sia nel lessico facile e ordinario, sia nel ritmo veloce dei versi garantito dalla loro brevità (in diverse raccolte abbondano i quinari e i settenari), sia infine nell’uso molto parco della punteggiatura: «Avevo sette anni / e a scuola mi chiedevano / perché tanti cognomi. / Ma io parlavo poco. / Facevo greche sui quaderni / amavo il gesso / e le reliquie le credevo dolci / quando ne parlavano le suore» (Amavo il gesso); «Chiedi come campa Vivian / usando il verbo campare / perché del suo vivere / non t’importa più nulla / le volevi bene come un fratello / del suo vivere difficile / non t’importa più nulla» (Chiedi come campa Vivian).

A un certo punto nella produzione poetica della Lamarque, in cui il tema centrale è quasi sempre l’amore (dato e ricevuto, ma soprattutto non ricevuto), si inseriscono però ben tre raccolte consecutive incentrate sul rapporto con l’analista, che segnano una netta interruzione del discorso precedente (e anche seguente) e forse anche una caduta in termini contenutistici e di espressività poetica. I temi diventano ripetitivi, lo stile perde la sua verve, la sintassi si fa ancora più discorsiva e il verso si allunga notevolmente determinando spesso uno sciatto effetto prosastico: «Il tempo passava tantissimo. Non si faceva quasi in tempo a stare con quel signore vicino al finestrino. / Il tempo passava come un treno rapido, le stazioncine nemmeno le guardava» (Il signore e il tempo). È come se la ripetitività tipica del fenomeno transferale, che può a tratti isterilire lo psichismo, [3] si riverberasse negativamente sull’arte della poetessa.

La poetessa, ad esempio, si rivolge continuamente all’analista che l’aveva in cura nei termini di una bambina bisognosa di protezione, idealizzandolo e rappresentandolo come una divinità: «Era un signore bello e meraviglioso. / Vicino a lui non si poteva stare sempre sempre, bensì mai.» (Il signore mai); «In cielo splendeva il sole. / Per fare? / Per lei andare a spasso con quel signore. / Era una bella passeggiata? / Meravigliosa, anche gli astri del cielo, in ordine sparso, vi partecipavano.» (Il signore degli astri).

Le immagini usate per descrivere quella condizione interiore di dipendenza assoluta da un altro essere umano si fanno a volte poco credibili e appositamente enfatizzate: «Splendidissima era la vita accanto a lui sognata. / Nel sogno tra tutte prediletta la chiamava.» (Il signore sognato); «Era una signora felice strafelice. / perché nella sua mente non c’era Nessuno, c’era Qualcuno. / qualcuno lì nella sua mente ben stabilmente seduto, come su di un trono un Re. / La signora lo guardava fisso e gli faceva piccoli inchini di pensiero sulle scale d’oro del trono.» (Il signore del trono). Si tratta di immagini che, unite all’inclinazione della Lamarque a modi di esprimersi infantili, danno a molti componimenti di questi lavori un certo carattere di affettazione (oltre che, come abbiamo detto, di sterile ripetitività).

Attraverso le tre raccolte poetiche in questione è possibile capire quanto il transfert, coi suoi meccanismi di forte idealizzazione dell’analista (e quindi di distorsione della realtà) e di profonda dipendenza emotiva del paziente (con conseguente aumento della sua vulnerabilità psichica) possa impoverire la personalità e le potenzialità creative di quest’ultimo (e non solo, quindi, curare) a causa, come detto, della focalizzazione prevalente e duratura delle sue risorse affettive sulla figura del curante, percepito spesso coi caratteri di un essere perfetto e potente o di una divinità in terra. [4] Il transfert, fattore determinante nella cura analitica, può quindi essere considerato anche un potenziale pericolo per le capacità creative dell’analizzando. Bastino qui, come esempio di tali processi, alcuni versi tratti da raccolta Poesie dando del Lei: «Mi sono innamorata tanto? / Oh sì! / la prego faccia altrettanto!»; «la mia superficie è felice, / ma venga venga a vedere / sotto la vernice; Il mio Dottore è ritornato / il mondo assopito / si è risvegliato»; «Caro Dottore / basta distanza, / varchiamo La prego / il confine della stanza»; «Allora io dico / il male che io sento / quando io a Lei lontano penso / io dentro la testa e il cuore sento / come un disperato firmamento». [5]

Si preferisce di gran lunga quella poesia della Lamarque linguisticamente originale e spesso felicemente ritmata (sono il ritmo e il suono della poesia di Saba, di Penna, di Caproni) che si snoda al di fuori di questa fase artistica connessa all’esperienza psicoanalitica dell’autrice, quando essa riesce a trovare scansioni sintattiche meno elementari e scontate: «Quel dato gesto / quell’abitudine / di stare uno più avanti sulla sedia / e uno un po’ più indietro / o un’altra / di mangiare ma non quella verdura / quel rito a quell’ora / o un poco dopo (Sai la parola mai?)»; quando la metafora si fa più ardita: «Quella sera che ho fatto / l’amore mentale con te / non sono stata prudente / dopo un po’ mi si è gonfiata la mente / sappi che due notti fa / con dolorose doglie / mi è nata una poesia illegittimamente» (Poesia illegittima); quando l’ironia si fa più sottile: «Come in un film da ridere / mi stai facendo la fotografia / e mi dici di fare un passo indietro / ancora uno ancora uno / mentre mi spingi verso il precipizio / ti sorrido fiduciosamente / (forse hai agito innocentemente)» (Precipizio), o quando, infine, il tema del legame affettivo viene trattato in modo più complesso e niente affatto scontato: «Lo sai vero / che in questo momento / sei tu il complemento oggetto preferito / della sua voglia di amare / tu il verbo da coniugare spogliare / in tutti i modi e i tempo possibili / il nome da declinare» (Declinazione).

Una poesia che, quando vuole e grazie soprattutto all’utilizzo sapiente delle rime, della metrica e delle anafore, sa essere vera poesia distinguendosi nettamente da una banale prosa cui a volte pericolosamente tenderebbe, riuscendo a suscitare emozioni nel lettore con una delicatezza tutta particolare.

Una poesia che riesce a dare il suo massimo quando si dispiega in una varietà di tematiche e ritmi, evitando le secche della ripetitività e la banalità connesse, a mio avviso, proprio al fenomeno del transfert analitico e alla sua asfissiante esclusività.


[1] Si tratta delle raccolte poetiche: Il signore d’oro, Poesie dando del lei e Il signore degli spaventati inserite nel volume Poesie (1972-2002), Mondadori, Milano 2002.
[2] In tal senso l’analisi potrebbe essere intesa, parafrasando una frase del celebre psicoanalista Otto Kernberg, un trattamento “ad alto rischio e ad alto guadagno”. Su questi e altri aspetti problematici del trattamento analitico, si veda anche il mio recente saggio Il carattere della psicoanalisi (Psiconline Edizioni, 2017).
[3] Principalmente perché i pensieri e le emozioni dell’analizzando si focalizzano ossessivamente e per lungo tempo su un unico oggetto: l’analista.
[4] Ciò è legato alla regressione del paziente a forme di comportamento e di pensiero tipiche dell’infanzia: un fenomeno inevitabile in analisi. Di ciò si trovano numerosi esempi nelle tre raccolte poetiche in questione.
[5] Significativo in questa raccolta, relativamente alla potenza del transfert, l’utilizzo voluto della maiuscola in sostantivi e pronomi che si riferiscono all’analista.



René Magritte, Les Amants IV, 1928

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